Il Fallimento del Modello Globalizzato

Il mondo globalizzato che abbiamo costruito negli ultimi decenni si sta rivelando un modello insostenibile. La promessa di benessere diffuso si è infranta contro una realtà fatta di disuguaglianze crescenti, impoverimento del ceto medio e precarizzazione dei lavoratori. Il mito della crescita illimitata, sorretto dall’abbattimento dei costi e dalla ricerca spasmodica del profitto, ha prodotto conseguenze devastanti sotto gli occhi di tutti. Non servono grandi analisi per rendersene conto: basta osservare la realtà quotidiana.

Oggi, una piccola élite accumula ricchezze inimmaginabili, mentre milioni di persone faticano a sostenere i costi della vita. Il lavoro, che un tempo garantiva stabilità e sicurezza, è diventato sempre più incerto. Anche chi ha un impiego non ha più la certezza di poter costruire un futuro solido. Le statistiche lo confermano: la ricchezza si concentra sempre di più nelle mani di pochi, mentre il ceto medio, spina dorsale delle economie moderne, si assottiglia fino quasi a scomparire.

Secondo il Global Wealth Report 2023 di UBS e Credit Suisse, l’1% più ricco del pianeta possiede circa il 45% della ricchezza globale, mentre miliardi di persone vivono con meno di 5 dollari al giorno.

Oxfam, inoltre, denuncia che il divario tra ricchi e poveri si è ampliato drammaticamente, con i super-ricchi che continuano ad accumulare risorse mentre i lavoratori vedono ridursi il potere d’acquisto.

Delocalizzare, ridurre i salari, sacrificare le comunità locali in nome di una competitività sempre più aggressiva ha portato a un circolo vizioso. Interi settori produttivi sono stati smantellati e trasferiti in paesi dove la manodopera costa meno. Il risultato? Città un tempo fiorenti ora in crisi, competenze disperse, dipendenza da filiere globali sempre più fragili. Lo si è visto con la pandemia, quando bastava un’interruzione nella catena di approvvigionamento per mettere in ginocchio interi comparti industriali.

E non è solo una questione economica. Questo modello sta erodendo il tessuto sociale, creando frustrazione e disillusione. Sempre più persone si sentono escluse, prive di prospettive. La politica fatica a rispondere a queste sfide, e l’instabilità cresce. La fiducia nelle istituzioni si sgretola, lasciando spazio a tensioni e derive populiste.

Negli USA, dal 1970 a oggi, il reddito reale del ceto medio è stagnante o in calo, mentre il costo della vita aumenta. In Europa, il fenomeno del “lavoro-povertà” (working poor) è in crescita: Eurostat riporta che circa il 10% dei lavoratori europei è a rischio povertà, nonostante un impiego.

L’impoverimento della classe media ha alimentato instabilità politica, populismi e sfiducia nei confronti delle istituzioni. La mancanza di prospettive per i giovani sta creando un senso di insicurezza diffuso: secondo il World Economic Forum, il 60% dei giovani in molti paesi non crede più che avrà un futuro migliore rispetto ai propri genitori.

Eppure, esiste un’alternativa. Non si tratta di rinnegare del tutto la globalizzazione, ma di renderla più equilibrata. Un’economia che torni a mettere al centro l’uomo e non solo il profitto, che valorizzi la produzione locale e riduca la dipendenza da modelli produttivi incontrollabili, è non solo possibile ma necessaria. La localizzazione delle filiere produttive, il sostegno alle imprese del territorio, la creazione di un sistema che bilanci le esigenze globali con le specificità locali potrebbero dare nuova linfa alle comunità, restituendo dignità al lavoro e stabilità economica.

Perché alla fine è chiaro: un sistema che impoverisce la maggioranza della popolazione non è destinato a reggere a lungo. Il futuro non può essere costruito sulla precarietà, sull’instabilità e sulla continua erosione del benessere collettivo. Bisogna ripensare il modello, prima che sia troppo tardi.

Noi siamo pronti e vorremmo contribuire, Voi?

Articolo di Marco Simontacchi

11/02/2024